Educazione e Scuola
I reportage e i servizi giornalistici sui giovani di oggi, sempre più spesso hanno per oggetto comportamenti estremi, e cadute di stile, fortemente connessi a problemi diseducativi. Prescindendo dalla responsabilità primaria che compete ai genitori,in quanto primi titolari dell’educazione dei figli, molte riflessioni guardano al ruolo svolto dalla scuola, in quanto agenzia di sostegno delle famiglie. Ai trasgressivi video “You Tube”, ai fenomeni di bullismo, si aggiungono dati statistici, allarmanti:” il 70% dei giovani si droga, un politico su 3 si droga, il numero dei suicidi è maggiore dei morti in incidenti stradali, i ladri sono più degli onesti, in macchina vanno tutti veloce e si schiantano”. Molti giovani e meno giovani sono convinti che il mondo faccia schifo, che a scuola non si impara a vivere in modo civile, rispettando se stessi, gli altri e l'ambiente in cui viviamo, che la scuola non compia il suo scopo e che il sistema educativo sia fallimentare. Ad offuscare ulteriormente questo quadro già in ombra, si aggiunge l’esito dell’indagine organizzata dall'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), sui livelli di comprensione della lettura e sui livelli di cultura matematica e scientifica dei ragazzi quindicenni che frequentavano la scuola a quell'età. A quest'operazione, denominata PISA (Programme for International Student Assessment) hanno partecipato circa 265 000 studenti di 32 paesi. Grazie al PISA si è ottenuta un'idea di quel che i giovani sanno alla fine della scuola dell'obbligo, o meglio, di quel che sanno fare con quanto hanno imparato a scuola e fuori di scuola nel corso dell'obbligo scolastico. I risultati non sono incoraggianti: alla fine della scuola dell'obbligo solo il 10% dei quindicenni è riuscito a completare i compiti più difficili del PISA. Al termine dell’indagine è stato affermato che il progetto di alfabetizzazione universale della popolazione, perseguito con grandi mezzi da oltre cinquant'anni e con l'appoggio di molteplici istituzioni internazionali pubbliche e private, è in parte fallito. I risultati del PISA costringono a riflettere sulla funzionalità della scuola, sul senso che essa ha nelle nostre società, nonché a rivedere i piani d'espansione dell'istruzione. In generale, il livello d'istruzione delle nuove generazioni è migliorato per tutti, ma lo scarto nelle possibilità di accesso a forme d'istruzione di livello superiore tra detentori di diplomi di natura tecnico-professionali e di maturità di cultura generale è rimasto intatto. Da questo punto di vista si può affermare che non c'è stata democratizzazione del sapere, anche se le prospettive dei giovani dei ceti meno abbienti sono migliorate rispetto a quello dei loro genitori (v. Terrail, 2002).Dai dati del PISA si evince che una proporzione significativa di giovani di 15 anni ha un'attitudine negativa verso la scuola e l'apprendimento: più di un quarto di tutti gli studenti quindicenni non ha più nessuna voglia d'andare a scuola, tanto da non desiderare altro che smettere di frequentarla. In Italia la percentuale è del 38%. Il secondo nodo irrisolto nella scuola di massa è la formazione dei docenti. Questa formazione dovrebbe essere promossa e valorizzata perché la trasmissione dei saperi e l'acquisizione delle conoscenze non può essere lasciata al caso, ma implica il rispetto di tappe precise. Questo trasferimento esige l'acquisizione, la trasmissione e l'uso di conoscenze specifiche. A questo punto è evidente che il problema scolastico è un problema sociale: la scuola statale convenzionale è in crisi non solo per ragioni di inefficienza, per motivi di tipo didattico, per fattori connessi al cambiamento dei saperi o dei valori etici propugnati dalla società, ma perché il concetto di stato che ha generato il sistema scolastico pubblico è vacillante. Il problema della scuola dunque, è strettamente connesso alla ridefinizione del patto sociale che fonda le nostre società. Ma se il quadro è davvero così allarmante, esistono segnali in controtendenza? Ci sono luci di speranza per le future generazioni e per le famiglie cui esse si appoggiano? Educare non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande "emergenza educativa", confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i loro sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita. Viene spontaneo, allora, incolpare le nuove generazioni, come se i bambini che nascono oggi fossero diversi da quelli che nascevano nel passato. Si parla inoltre di una "frattura fra le generazioni", che certamente esiste e pesa, ma che è l'effetto, piuttosto che la causa, della mancata trasmissione di certezze e di valori. Dobbiamo dunque dare la colpa agli adulti di oggi, che non sarebbero più capaci di educare? E' forte certamente, sia tra i genitori che tra gli insegnanti e in genere tra gli educatori, la tentazione di rinunciare, e ancor prima il rischio di non comprendere nemmeno quale sia il loro ruolo, o meglio la missione ad essi affidata. In realtà, sono in questione non soltanto le responsabilità personali degli adulti o dei giovani, che pur esistono e non devono essere nascoste, ma anche un'atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Diventa difficile, allora, trasmettere da una generazione all'altra qualcosa di valido e di certo, regole di comportamento, obiettivi credibili intorno ai quali costruire la propria vita, quel dono grande e prezioso che è la nostra libertà, con la responsabilità che giustamente l'accompagna. A differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell'ambito della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell'uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni. Anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta personale. Quando però sono scosse le fondamenta e vengono a mancare le certezze essenziali, il bisogno di quei valori torna a farsi sentire in modo impellente: così, in concreto, aumenta oggi la domanda di un'educazione che sia davvero tale. La chiedono i genitori, preoccupati e spesso angosciati per il futuro dei propri figli; la chiedono tanti insegnanti, che vivono la triste esperienza del degrado delle loro scuole; la chiede la società nel suo complesso, che vede messe in dubbio le basi stesse della convivenza; la chiedono nel loro intimo gli stessi ragazzi e giovani, che non vogliono essere lasciati soli di fronte alle sfide della vita. Chi crede in Gesù Cristo ha poi un ulteriore e più forte motivo per non avere paura: sa infatti che Dio non li abbandona, che il suo amore li raggiunge là dove sono e così come sono, con le proprie miserie e debolezze, per offrire una nuova possibilità di bene. Allora può essere utile individuare alcune esigenze comuni di un'autentica educazione. Come dice il Papa in una sua lettera, “…essa ha bisogno anzitutto di quella vicinanza e di quella fiducia che nascono dall'amore: penso a quella prima e fondamentale esperienza dell'amore che i bambini fanno, o almeno dovrebbero fare, con i loro genitori”. Ma ogni vero educatore sa che per educare deve donare qualcosa di se stesso e che soltanto così può aiutare i suoi allievi a superare gli egoismi e a diventare a loro volta capaci di autentico amore. Sarebbe dunque una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande domanda riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita. Anche la sofferenza fa parte della verità della nostra vita. Perciò, cercando di tenere al riparo i più giovani da ogni difficoltà ed esperienza del dolore, rischiamo di far crescere, nonostante le nostre buone intenzioni, persone fragili e poco generose: la capacità di amare corrisponde infatti alla capacità di soffrire, e di soffrire insieme. Punto forse più delicato dell'opera educativa è trovare un giusto equilibrio tra la libertà e la disciplina. Senza regole di comportamento e di vita, fatte valere giorno per giorno anche nelle piccole cose, non si forma il carattere e non si viene preparati ad affrontare le prove che non mancheranno in futuro. Il rapporto educativo è però anzitutto l'incontro di due libertà e l'educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà. L'educazione non può dunque fare a meno di quell'autorevolezza che rende credibile l'esercizio dell'autorità. Essa è frutto di esperienza e competenza, ma si acquista soprattutto con la coerenza della propria vita e con il coinvolgimento personale, espressione dell'amore vero. L'educatore è quindi un testimone della verità e del bene: certo, anch'egli è fragile e può mancare, ma cercherà sempre di nuovo di mettersi in sintonia con la sua missione. Da queste semplici considerazioni emerge come nell'educazione sia decisivo il senso di responsabilità: responsabilità dell'educatore, certamente, ma anche, e in misura che cresce con l'età, responsabilità del figlio, dell'alunno, del giovane che entra nel mondo del lavoro. E' responsabile chi sa rispondere a se stesso e agli altri. Chi crede cerca inoltre, e anzitutto, di rispondere a Dio che lo ha amato per primo. La società però non è un'astrazione; alla fine siamo noi stessi, tutti insieme, con gli orientamenti, le regole e i rappresentanti che ci diamo, sebbene siano diversi i ruoli e le responsabilità di ciascuno. C'è bisogno dunque del contributo di ognuno di noi, di ogni persona, famiglia o gruppo sociale, perché la società, a cominciare da questa nostra città. Occorre non disperare perché anima dell'educazione, come dell'intera vita, può essere solo una speranza affidabile. Oggi la nostra speranza è insidiata da molte parti e rischiamo di ridiventare anche noi, come gli antichi pagani, uomini "senza speranza e senza Dio in questo mondo", come scriveva l'apostolo Paolo ai cristiani di Efeso (Ef 2,12). In Italia esistono diverse realtà scolastiche dove certamente l’aspetto educativo è tenuto in seria considerazione. Senza voler discriminare fra scuola e scuola, vogliamo solo provare ad identificare la scuola con un albero. Vi sono scuole che assomigliano ad uno di quegli alberi di natale dove tutto è artificiale, magari ben illuminati e carichi di palline colorate, belli a vedersi e magari anche da ammirare, ma statici e, col tempo, destinati a coprirsi di polvere. Vi sono altre scuole invece che assomigliano a piante vive, che vengono curate con passione, da mani esperte, su cui maturano frutti sempre più maturi e soprattutto capaci di riprodurre altri frutti. Una valutazione in questo senso, riguarda una scuola della nostra città. E’ una valutazione acquisita per esperienza diretta e per questo, non intende far torto ad altre realtà non conosciute. E’ la Scuola Don Milani, con le sue sedi di via Pisa e via Casamicciola. In essa gli alunni entrano bambini, magari un po’ viziati, ed escono adolescenti, non soltanto preparati culturalmente, ma con una base formativa ed educativa integrata con quella delle rispettive famiglie, portatori di un orientamento per il futuro, non sterile “tanto per fare”, ma frutto di un lavoro di gruppo serio e personalizzato. I numerosi progetti avviati, l’impegno senza risparmio di docenti di qualità e da un preside “paterno ma autorevole”, dalle rare doti umane, cui sta “a cuore”, prima di tutto, il bene dei ragazzi, ne sono la prova più tangibile e riconosciuta da parte di tutti i genitori. E’ su questo tipo di scuola che molti di essi hanno puntato le loro luci di speranza. Roberto Benatti